Neuromante (titolo originale "Neuromancer", anche in italiano è felicemente conservato il gioco di parole di fusione tra neuro- e necromancer ovvero necromante) di William Gibson, uscito nel 1984, a distanza di quasi trent'anni è considerato il capolavoro del genere, ed effettivamente, a mio modestissimo avviso, ne ha tutti i requisiti: ne definisce i canoni, grazie ad una struttura magistrale, all'efficacia linguistica, e, incidentalmente, ad una trama avvincente, ma contemporaneamente li trascende travalicando progressivamente in una universalità poeticamente visionaria. Non mi stupirei se chi sarà al mondo tra tre-quattro generazioni lo dovrà affrontare nella scuola dell'obbligo (ammesso che mondo, scuole e obblighi esistano ancora) nello stesso modo in cui ora si legge George Orwell.
Il lettore viene immerso gradualmente in una società globale di pirati informatici che scorrazzano nella rete, assassini senza scrupoli al soldo di potenti e ramificate corporation, ricettatori di software e innesti neuronali che ampliano le potenzialità del cervello, chirurghi clandestini e protettori a termine; un mondo dove il polistirolo galleggia illuminato dalle insegne al neon di fronte alle banchine del porto di Tokyo, dove la dispersione urbana ha trasformato l'east coast da New York a Miami in un'unica area metropolitana, dove se non vuoi morire devi guardarti le spalle continuamente. Un mondo stratificato su diversi livelli di realtà, dove la sottrazione fisica di un oggetto può avere successo solo se parallelamente un'incursione attraverso il cyberspazio rende innocui i connessi sistemi di protezione informatica; dove ad ogni elemento fisico reale corrispondono informazioni digitali in un ambiente virtuale infinito-dimensionale nel quale sono topologicamente organizzate strutture di dati in continua comunicazione ed evoluzione, che con ausilio di software vengono rappresentate come oggetti iridescenti immersi in uno spazio illusorio. Attraverso questo network globale posso avere accesso a percezioni sensoriali generate in qualche altro luogo da qualche dispositivo, come se questo fosse fuso con il sistema nervoso; al limite queste possono essere ricostruite artificialmente, posso rimanere intrappolato in un mondo artefatto, ricreato ad arte, ammesso che qualcuno, per esempio una immensa intelligenza interficiale, sappia ricostruire e programmare ogni singolo granello di sabbia, ogni spiffero di vento, le movenze leggiadre di un ragazzino, la dolcezza ammaliante della ragazza che credevi di aver perduto, ovvero la sterminata complessità del mondo, senza ritornare ciclicamente, camminando sulla spiaggia, al punto di partenza. Come a suggerirti che l'unico indizio a sostegno dell'autenticità dell'universo sia la sua infinitezza. Questo sprofondamento viene rappresentato come esperienza sensoriale, un viaggio continuo a tratti inintellegibile, i cui una sinestesia continua trasmette e amplifica la confusione delle percezioni.
Se riesci a non farti travolgere dalla morbosità e dall'intrigata architettura dell'intreccio, non puoi riporre il volume nella libreria senza rimettere in discussione e riaggiornare il tuo concetto di realtà, senza confrontarti con il fatto che le nostre esperienze non sono che input neurali e successive elaborazioni, senza affrontare una questione che arrogantemente mi prendo la libertà di sintetizzare nella seguente domanda un po' prosaica: " Sei innamorato. Preferisci vivere in un mondo che consideri reale perché l'unico che tu abbia mai conosciuto dove sai che lei (o lui) è morta(o) in modo orribile, oppure in un mondo dove ce l'hai lì accanto, potete guardarvi, parlarvi, trasmettervi vibrazioni con le gestualità di sempre, avere amplessi, un mondo per il resto perfettamente indistinguibile dall'altro tranne per il fatto che per certo sai essere falso e illusorio? "
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